18/07/ 64 d.C. Divampa incendio a Roma. Di chi fu la responsabilità

Pubblicato il da Giuly

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Sebbene sia tecnicamente impossibile stabilire le cause e conoscere i responsabili dell'incendio che devastò Roma nel 64 d.C., è altresì storicamente incerta la reale responsabilità dell'imperatore Nerone, tesi questa sostenuta dalla storiografia ufficiale. Sceverando le fonti, è possibile avanzare tre ipotesi:

  • L'incendio non fu doloso e si propagò per semplice effetto del vento
  • L'incendio è da ritenersi doloso e ordinato dall'imperatore Nerone
  • L'incendio è da ritenersi doloso e voluto dagli effettivi esecutori materiali (come vedremo)


Per onestà intellettuale occorre escludere a priori l'ipotesi del caso. L'incendio è ritenuto doloso per due motivazioni riferiteci dallo stesso Tacito:
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  • Il grande incendio in realtà comprendeva due focolai, appicatti in momenti e luoghi diversi. Il primo nelle vicinanze del palazzo imperiale, nei pressi del Circo Massimo, zona attigua al Palatino; Nerone si trovava ad Anzio ma, subito avvisato, fece ritorno a Roma ed ordinò di sedare le fiamme. Il secondo presso gli orti Emiliani di proprietà di Tigellino sei giorni dopo, il quale distrusse i templi dedicati agli dèi e i portici destinati allo svago.


  • Minacciosi personaggi sparsi nei luoghi dell'incendio, alimentavano le fiamme ed impedivano la loro estinzione da parte dei cittadini, ai quali affermavano di agire “per consiglio altrui”. Tacito ipotizza che il vero scopo di quei minacciosi personaggi fosse quello di approfittare del panico generale per briganteggiare e rubare nelle case in fiamme, ma in questo caso non avrebbe senso rimanere per le strade ad impedire ai cittadini di estinguere le fiamme.



L'indagine storiografica condotta dal professor Carlo Pascal “L'incendio di Roma e i primi cristiani”, consultabile online, dimostra in modo professionale ed obiettivo la vacuità delle accuse contro l'imperatore Nerone; mosse non in seguito ad una indagine seria condotta da chichessia, ma dovute a semplici e banali voci di corridoio e aneddoti.




Prima di addentrarmi nel punto focale sono necessari alcuni preamboli:


  • Il messaggio di amore universale annunciato dal cristianesimo era interpretato dagli stessi cristiani come un pretesto di rivendicazione sociale e “lotta di classe”.

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  • Da un lato della bilancia abbiamo un imperatore “sceleratissimo, che si abbandonava spesso e volentieri ad atti efferati e comportamenti riprovevoli... la capacità a delinquere di Nerone è fuori d'ogni discussione”; dall'altra abbiamo “una comunità segreta, della quale alcuni membri sono dediti al delitto per testimonianza degli scrittori pagani, e dagli apostoli stessi sono dichiarati indegni... che di tanto in tanto prorompevano alla rivolta, che predicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva seguire il regno della giustizia... che per essi l'Anticristo era Nerone, che credevano durante la loro vita essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene, che a Roma auguravano pel corso di lunghi secoli distruzione e sterminio, che dopo la rovina della potenza romana aspettavano il loro trionfo...”


  • “In Roma- dichiara il professor Pascal- i culti vivevano alla luce del sole... ma ogni rivendicazione sociale fruttava l'odio umano” (pp 26). I primi cristiani erano in maggioranza schiavi, donne, gladiatori ed appartenenti a classi sociali che nutrivano secoli e secoli di rancori. “A noi baterebbe- scrive Tertulliano (Apol. 37)- se volessimo vendicarci, una sola notte e qualche fiaccola... Ma non sia che con umano fuoco si vendichi la divina setta.” Magistrale è il commento di Carlo Pascal: “Nelle parole di Tertulliano eccheggia un grido di vendetta, cui tosto segue un consiglio di moderazione, non di perdono.” Ancora: “E' facile immaginare quanto larga e immediata diffusione avesse il cristianesimo tra gli schiavi, i quali sentivano più che mai prepotente la brama di rivendicazioni e da secoli prorompevano di tratto in tratto alla rivolta. D'altra parte, come avviene in tutti i movimenti umani, si aggrega alle idee nuove quel sostrato tenebroso della società che spunta fuori solo nei giorni più torbidi, giungendo ad ogni eccesso cui spingano le bieche passioni e i rancori lungamente soffocati. Tali uomini gettavano fosca luce su tutta intera la chiesa. Tacito dice: “odiati pei loro delitti” i cristiani, e meritevoli di ogni “pena più esemplare” (Ann XV 44); e Svetonio parla di essi come di gente “malefica” (Ner 16). Tacito e Svetonio hanno delle virtù e delle colpe umane gli stessi concetti che ne abbiamo noi. Quando essi parlano di delitti e malefizi, non è possibile assumere tali parole in significato men tristo dell'attuale.”


Terminata la premessa è ora possibile procedere nell'analisi. Carlo Pascal reputa inverosimili e arbitrarie le prove addotte da Svetonio e Dione Cassio che colpevolizzano l'imperatore Nerone. Dione Cassio giustifica la propria convinzione sulla base di due indizi:
“Nerone aveva fatto voto di vedere la distruzione di Roma e... egli aveva chiamato felice Priamo perchè aveva visto perire la patria sua.” Svetonio invece giustifica le proprie accuse intorno a tre fatti: “In un banchetto, avrebbe un convitato detto in greco “Quando io sia morto, si mescoli pure la terra col fuoco”, e Nerone avrebbe soggiunto ”Anzi, purchè io sia vivo si mescoli la terra col fuoco”; di più parecchi consolari sorpresero nei loro possedimenti i servi imperiali, con stoppa e faci... infine Nerone, desiderando sul Palatino l'area di alcuni granai costruiti con pietra, li fece prima abbattere e poi fece ad essi appiccare il fuoco.”

La replica di Carlo Pascal:
“Or veramente, se questi sono i fondamenti della secolare accusa, lo storico spassionato dovrà rimanere ben perplesso prima di confermarla. Certo fu un uomo di efferate nefandezze Nerone... però, giudicando senza prevenzioni, è facile scorgere quanta sia la vacuità delle ragioni che gli antichi apportano per incolparlo anche di questo. Quanto ai granai del Palatino, è naturale che, quando tutto intorno era distrutto, visti superstiti quegli informi ruderi, li facesse abbattere e incendiare, volendo liberare l'area. Quanto all'aneddoto raccontato da Dione Cassio, che egli avesse fatto voto di veder distrutta la città”, si nutrono forti dubbi, infatti sebbene Nerone abbia dato l'ordine di sedare le fiamme al suo rientro a Roma, “non si potè impedire, dice Tacito, che il Palatino e la reggia imperiale e tutti i luoghi intorno fossero in preda alle fiamme. Rimangono altri due anneddoti, quello di Priamo e quello del banchetto. Non è improbabile che Nerone abbia paragonato se stesso a Priamo, cui toccò di vedere distrutta la patria sua, e si chiamasse fortunato di vedere una cosa unica al mondo; ma ciò non si può apportare qual prova che l'ordine partisse da lui. Né tale deduzione si può trarre dai motti di spirito, che secondo Svetonio, avrebbe egli scambiato con un convitato ad un suo banchetto.” Giacchè se il convitato disse: emou qknontos gkik micqhtw pnoi, egli voleva evidentemente significare: “Purchè io sia già morto, si mescoli pure la terra col fuoco” ed in questo caso la replica di Nerone suonerebbe come: “Purchè io rimanga in vita e non corra pericoli, cascasse anche il mondo!” ( emou qknontos - emou zontos ovvero PURCHE' io sia già morto - PURCHE' io possa continuare a vivere)

Il secondo incendio scoppiò sei giorni dopo il primo e fu appicato nei pressi degli orti Emiliani, di proprietà di Tigellino, quando il primo focolaio era stato ormai sedato distruggendo per altro molti templi dedicati agli dèi. Nerone e Tigellino rappresentavano la societas di allora ed erano rimasti entrambi severamente danneggiati. Se tale incendio fosse frutto della provata tendenza a delinquere di Nerone, quest'ultimo avrebbe per lo meno liberato la reggia imperiale dalle suppellettili e dalle opere d'arte che lui aveva acquistato in tanti anni da ogni parte dell'impero.

L'ultima prova utilizzata per l'accusa contro Nerone rappresenta il nodo gordiano dell'intera questione. Poco prima che le fiamme divampassero infatti erano stati avvistati i servi imperiali con le fiaccole, intenti ad appiccare il fuoco. In seguito gli stessi impedirono ai cittadini di sedare le fiamme spacciando tale comportamento per ordine imperiale. Tali servi erano cristiani. Approfittarono dell'assenza dell'imperatore per appiccare il fuoco ed impedire ad altri di sedarlo, consapevoli che avrebbero agito indisturbati con il pretesto di eseguire un ordine imperiale. I sospetti furono condannati perchè “reo confessi” e denunciarono anche i compagni che avevano preso parte insieme a loro all'incendio.

L'unica ricostruzione che contraddice aspramente questa versione dei fatti si trova negli Annali di Tacito. Non mi dilungo in illazioni; sono in molti a sostenere l'ipotesi che l' Annales sia in realtà un falso storico erroneamente dichiarato opera di Tacito, ad ogni modo la ricostruzione dei fatti proposta in quest'opera va certamente discussa e analizzata.




Annales XV, 38 Tacito


(1)Accadde in seguito, non si sa se per caso o per colpa dell'imperatore (gli scrittori hanno tramandato ambedue le versioni) il disastro più grave e spaventoso fra tutti quelli che mai abbiano colpito Roma per violenza d'incendio. (2)L'inizio fu dalla parte del Circo contigua ai colli Palatino e Celio: di là il fuoco, attraverso botteghe di combustibili, prese subito forza e sospinto dal vento percorse rapidissimo tutta la lunghezza del circo: poiché non vi erano sul percorso né case protette da recinti, né templi circondati da muri, né alcun altro ostacolo. (3)L'incendio si propagò impetuoso prima nel piano, poi guadagnò le parti alte e ridiscese fino a devastare le più basse, perchè l'avanzare del flagello era più veloce di ogni rimedio e la città era indifesa contro il pericolo, a causa delle vie strette e tortuose e dei caseggiati irregolari, quali erano quelli della vecchia Roma... (7)Nè alcuno osava lottare contro le fiamme, per le ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerle e perchè altri ostentatamente lanciavano fiaccole e gridavano che così era stato loro ordinato: forse per poter rubare più liberamente, forse perchè realmente avevano ricevuto degli ordini.


Annales XV, 39 Tacito


(1)Quando Nerone, che in quel momento si trovava ad Anzio, ritornò a Roma, l'incendio si avvicinava alla sua casa, con la quale egli aveva messo in comunicazione il Palazzo con i giardini di Mecenate. Tuttavia non si potè impedire che il Palatino e la casa e tutto quanto intorno fosse inghiottito (dalle fiamme). (2) Ma in soccorso del popolo disperato e fuggiasco egli aprì i campi di Marte e gli edifici di Agrippa e persino i propri giardini; fece costruire baracche improvvisate, che accogliessero la moltitudine priva di tutto; oggetti di prima necessità furono portati da Ostia e dai municipi vicini e il prezzo del frumento fu diminuito fino a tre sesterzi per moggio. (3) Provvedimenti che, sebbene intesi a conquistare il favore del popolo, pur non raggiungevano lo scopo; perchè si era sparsa la voce che, mentre la città bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo ed avesse cantato la rovina di Troia, raffigurando nell'antico disastro le presenti sciagure.

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Annales XV, 40 Tacito


(1)Finalmente, dopo sei giorni, l'incendio ebbe termine ai piedi dell'Esquilino, essendo crollato sopra una sterminata distesa ogni edificio, cosicchè l'instancabile violenza del fuoco incontrava ormai la nuda pianura e, per così dire, il vuoto del cielo. Né ancora era cessato lo spavento, o rinata una debole speranza, quando le fiamme si riappiccarono in modo altrettanto grave, infuriando nei luoghi più aperti della città; cosicchè la strage di uomini fu minore, ma caddero in maggiore quantità i templi degli dèi e i portici destinati allo svago. (2) E quell'incendio suscitò commenti più odiosi, perchè si era sviluppato dagli orti Emiliani di proprietà di Tigellino; e sembrava che Nerone aspirasse alla gloria di fondare una città nuova e di darle il proprio nome. Veramente dei quattordici rioni in cui Roma è divisa, quattro soli erano rimasti illesi: tre erano stati rasi al suolo, e degli altri sette non c'erano più che poche vestigia, rovinate e semiarse.


Annales XV, 44 Tacito


(2)Ma né soccorso umano, né largizione imperatoria, né sacrifizi agli dèi valevano a soffocare la voce infamante che l'incendio fosse stato comandato. Allora per troncare la diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati quelli che le loro nefandezze rendevano odiosi e che il volgo chiamava cristiani. (3)Prendevano essi il nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio: quella finesta superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea, luogo d'origine di quel male, ma anche in Roma, ove tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. (4)Furono arrestati dapprima quelli che professavano la dottrina apertamente, poi, su denunzia di costoro, altri in grandissimo numero furono condannati, non tanto come incendiari, quanto come odiatori del genere umano. E quando andavano alla morte, si aggiungevano loro gli scherni: si facevano dilaniare dai cani, dopo averli vestiti di pelli ferine, o si inchiodavano su croci, o si dava loro fuoco, perchè ardessero a guisa di fiaccole notturne dopo il tramonto del sole. (5)Nerone aveva offerto per tale spettacolo i propri giardini e celebrava giochi nel circo, frammischiato alla plebe con abito d'auriga, o prendeva parte alle corse in piedi sul carro. Perciò, benché si trattasse di colpevoli, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo.



Tacito afferma esplicitamente di raccontare l'episodio dell'incendio di Roma affindandosi a più fonti, anche discordanti:

  • XV 38 (1)”Accadde in seguito, non si sa se per caso o per colpa dell'imperatore (gli scrittori hanno tramandato ambedue le versioni).”


  • XV 38 (7)”Nè alcuno osava lottare contro le fiamme, per le ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerle e perchè altri ostentatamente lanciavano fiaccole e gridavano che così era stato loro ordinato: forse per poter rubare più liberamente, forse perchè realmente avevano ricevuto degli ordini.”


Tacito distingue la pure cronaca riguardante l'avvenimento dalle dicerie che implicitamente ammette non essere confermate:

  • XV 39 (3) “… perchè si era sparsa la voce che, mentre la città bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo ed avesse cantato la rovina di Troia, raffigurando nell'antico disastro le presenti sciagure.”


  • XV 40 (2) “… e sembrava che Nerone aspirasse alla gloria di fondare una città nuova e di darle il proprio nome.”


  • XV 44 (2) “Ma né soccorso umano, né largizione imperatoria, né sacrifizi agli dèi valevano a soffocare la voce infamante che l'incendio fosse stato comandato. Allora per troncare la diceria...”


Secondo lo stesso racconto di Tacito, la reggia imperiale fu raggiunta dalle fiamme proprio quando Nerone giunse a Roma da Anzio e si adoperò affinchè fossero domate. Senza assolutamente negare la macabra tendenza a delinquere di Nerone, come poteva salire sul palcoscenico a cantare “La caduta di Troia”, se il palcoscenico stava bruciando? E' assai probabile che si trattasse quindi di una voce di corridoio dovuta al risentimento di molti nei confronti di Nerone.


Nota Bene. Nel paragrafo 44 sono presenti due situazioni che vanno per lo meno discusse.

Il professor Pascal contesta una presunta interpolazione nella traduzione dal latino all'italiano:

  • XV 44 (2)”Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat.“


  • XV 44 (2)“Nerone spacciò per colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati quelli che le loro nefandezze rendevano odiosi e che il volgo chiamava cristiani.”


Il subdidit reos- dichiara- si vorrebbe spiegare con 'sostituì al vero colpevole i falsi'. La spiegazione (benchè data da alcuni lessici) è erronea. Subdere reum significa solo 'iniziare subito un processo contro qualcuno per evitare un pericolo' (Ann. I, 6; III, 67). Se questo qualcuno sia colpevole o innocente, risulta dal resto del discorso. Il nuovo processato anzi può anche aver avuto qualche parte all'azione criminosa (come in Ann. I,6), o il delitto essere inesistente, e quindi anche non esistere il colpevole vero (come in Ann. I,39), nel qual caso è evidente non poter parlare di sostituzione. Quando Tacito vuol dire 'scambiare il colpevole con l'innocente' adopera invec e il verbo 'vertere' (Ann. IV, 10).




Altra incongruenza, per niente sfuggita all'occhio vigile del professor Carlo Pascal, è presente nel paragrafo 44:

  • XV 44 (3) “Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat.”


  • XV 44 (3)“Prendevano essi il nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio.”


Ponzio Pilato non era procuratore, era prefetto. Solo a partire dal principato di Claudio, tutte le province equestri di nuova costituzione divennero procurationes e, tranne l'Egitto, il titolo dei governatori non fu più quello di praefectus, ma di procurator. Tiberio precede Claudio, quindi Ponzio Pilato non fu procuratore ma prefetto.


Del perchè l'opinione del popolo abbia sempre assolto i cristiani da questo processo, è Tacito stesso a confessarlo, indirettamente:

  • XV 44 (5)“Nerone aveva offerto per tale spettacolo i propri giardini e celebrava giochi nel circo, frammischiato alla plebe con abito d'auriga, o prendeva parte alle corse in piedi sul carro. Perciò, benché si trattasse di colpevoli, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo.” Conclusione: sebbene sia impossibile stabilire le vere cause e i veri responsabili dell'incendio che nel 64 d.C. ha devastato dieci rioni di Roma su quattordici, siamo però in grado di stabilire il tenore e la veridicità delle accuse mosse contro Nerone e confrontarle con quelle mosse contro i cristiani. La versione ufficiale insegna che la confessione dei cristiani reo confessi, fu estorta con metodi stile inquisizione medievale. Assolutamente impossibile. I processi nella Roma repubblicana ed imperiale erano processi pubblici, non a porte chiuse. La folla aveva la possibilità di ingerire nello svolgimento del processo a suo piacimento; celebre è l'episodio del processo contro Milone, in cui il famoso avvocato Marco Tullio Cicerone rifiutò di leggere la sua orazione per timore della folla. Se la colpevolezza di Nerone fosse stata provata, o se il processo si fosse rivelato una farsa creata dalla volontà a delinquere di Nerone, la folla avrebbe reagito pesantemente.


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